Il mondo analogo
“Questa storia partecipa al Blogger Contest 2021”
Prototaxites
Ogni cosa esiste solo quando è in relazione.
Questo ci dice la fisica contemporanea. “A livello microscopico ci sono particelle che esistono solo se sbattono da qualche parte, se entrano in relazione, altrimenti non esistono”.
La mia vita è iniziata proprio così: quando ho capito che, vivere, significa prendere parte assieme ad altri/e alla vita; condividere lo stesso ambiente naturale con gli stessi valori di saggezza e di compassione, che rendono il nostro pianeta qualcosa di unico e speciale.
Tutto è iniziato con Gala: con lei potrei vivere negli ambienti più inospitali della Terra. La nostra è una “vita in simbiosi”. Siamo Terra e Cielo e in mezzo c’è – naturalmente – la passione per la montagna. Ciò che ci accomuna è l’amore per l’esplorazione, siamo sempre pronte a partire verso ogni “west”, purché sia abbastanza “far”; dai vulcani, ai ghiacciai, fino agli angoli più remoti del deserto. Siamo sempre le prime ad arrivare ma solo per “preparare il terreno” ad altri/e in luoghi del tutto inospitali.
L’unione, il contatto deve essere una cosa assai importante sulla terra. Quando noi stabiliamo un contatto, si accende forse una luce in luoghi sconosciuti.
Io mi occupo di fisica, di sperimentare, di indagare continuamente le leggi che regolano l’universo, la terra e i corpi. Cerco spesso nuove collaborazioni – letteralmente ovunque – dissolvendo il “self” nell’alterità. Sono smisuratamente lenta e magnificamente industriosa. Gala, invece, interagisce con l’ambiente attraverso la luce. Questa meravigliosa realtà che non ha nessun colore, che è invisibile. Le sue fotografie le danno la possibilità di partecipare attivamente alle continue trasformazioni che la circondano. Per lei l’arte è un lento processo, un accadimento. Il suo lavorio ha del meraviglioso, è un soffio vitale.
Sintesi, foto di Gala.
Insieme, viviamo in una perpetua fantasticheria del futuro. Passiamo interminabili giorni a cercare soluzioni per migliorare il nostro habitat. Sogniamo un mondo diverso da quello in cui ci troviamo a vivere, un mondo opposto, in cui si possa respirare liberamente, abitato da esseri capaci di vivere in armonia e libertà.
I centri urbanizzati, quello strano fenomeno che si verifica in tutti i paesi del mondo, contribuiscono al surriscaldamento climatico e al conseguente inquinamento dell’aria.
Il nostro pianeta rischia di diventare un deserto senza vita, senz’acqua e senz’aria.
La presenza di sostanze nell’aria come: radionuclidi, zolfo, fluoro, idrocarburi clorurati, metalli, polveri sottili e fumi, la cui presenza è dovuta principalmente alla combustione di fonti fossili, all’attività degli inceneritori e delle centrali termoelettriche, sono nocive per ogni essere vivente. Nonostante i danni prodotti dall’inquinamento urbani siano forti, si possono adottare soluzioni che coniughino modernità e sostenibilità. Vogliamo pensare ad un mondo “dove esiste del bene, del vero, del bello”.
Vogliamo cieli limpidi dove poter incontrare le stelle e poter avere ancora la possibilità di desiderare: parola formata dal latino de, in accezione negativa=senza, e sidera=stella, dal latino sidus. Desiderare significa, quindi, letteralmente, “mancanza di stelle”, e dunque una tensione verso l’ignoto, verso ciò che ci manca.
Le stelle sono come granelli di polvere, come cenere, e questo apparente niente evidenzia il tutto.Noi ci muoviamo lentamente: tra la lentezza e l’immaginazione, riusciamo a cogliere l’essere di ogni cosa, un sovrappiù di vita, un canto.
È l’alba. Tutti gli animali e i vegetali alzano lo sguardo verso est, verso il Sole, impazienti di luce. Siamo in un bosco, tra faggi secolari e betulle lucenti. Si avvicina una donna: sfiora le nostre superfici fogliose, osserva il nostro colore tra verde e ciano, la nostra forma ondulata. Rimane sorpresa dalla nostra natura: privi di organi riproduttivi visibili, quindi di fiori, senza fusti, né vere foglie e radici, ma una struttura indifferenziata detta tallo.
Sono un lichene: un organismo semplicemente straordinario: il più antico organismo fotosintetico ossigenico apparso sul nostro Pianeta.
Parmelia, lichene, io+Gala(alga)
Quattrocento milioni di anni fa, i nostri antenati (Prototaxites) erano strutture biologiche alte come palazzi di due piani, e sono state le cose vive più alte per almeno 40 milioni di anni, cioè per 20 volte la durata di esistenza del genere Homo.
Non sono un organismo, ma due: una simbiosi fra un fungo e un’alga i cui destini si sono così interconnessi da creare una nuova specie.
Io sono un fungo e sopravvivo grazie ai composti organici prodotti dalla fotosintesi di Gala (alga), mentre lei riceve in cambio la mia protezione, sali minerali ed acqua. Viviamo davvero in simbiosi: la nostra è una stretta associazione in cui ci scambiamo sostanze nutritive per sopravvivere.
Quello che fa Gala con la fotosintesi, è di gran lunga il processo più importante per la vita sulla Terra. La fotosintesi consiste in un processo biochimico, attraverso il quale, in presenza della luce solare, vengono sintetizzate specifiche sostanze, soprattutto gli zuccheri. Parte da due precursori, l’anidride carbonica atmosferica e l’acqua. Come nella fotografia, il processo fotosintetico avviene in due fasi: la fase luminosa, che è dipendente dalla luce solare, e la fase oscura, che si compie in maniera indipendente dalla luce. Il meccanismo fotosintetico è importante per la nostra sopravvivenza, ma soprattutto ricopre un ruolo decisamente essenziale per la vita in generale sul pianeta Terra, dal momento che, mediante la fotosintesi, le piante secernono ossigeno. Inoltre, noi possiamo assorbire l’anidride carbonica, e dunque abbiamo un ruolo fondamentale nel contrastare l’accumulo di CO₂ dovuto all’attività umana, responsabile dell’aumento delle temperature (quindi dell’effetto serra).
Laddove piante, muschi, insetti e tutti gli altri esseri viventi tranne alcuni batteri, non osano più avventurarsi, io ci sono. Sfido tutte le temperature e tutte le altitudini. Oggi, sono di dimensioni molto più piccole – alle volte anche grande pochi millimetri – ma la mia struttura è semplice e allo stesso tempo perfetta. Se mi osservate con la lente, potreste vedere spuntare un ragno, una Cleorodes lichenaria – falena della famiglia Geometridae – o un’altra creatura fantastica dalle dimensioni minuscole.
Larva di Cleorodes lichenaria, mimesi.
Sono un bioindicatore: consento il monitoraggio sulla presenza di contaminanti nell’ambiente.
La mia presenza può contrastare la desertificazione. Posso infatti assorbire acqua, trattenendola nel suolo anche in condizioni di aridità e rendere il suolo più favorevole allo sviluppo dei microrganismi coinvolti nei cicli biogeochimici favorendo la germinazione dei semi e lo sviluppo delle piante.
E ora rallenta, magari fermati. Cerca una connessione più intima col bosco. Forse, la speranza per la nostra Terra, è negli occhi e nel cuore di chi sa nutrirsi di bellezza, intesa come quell’intensità sacrale che può scaturire solo da una vera profondità etica in cui grazia e moralità restano sempre indisgiungibili. Vedere ciò che è. Essere ciò che si vede.
“La Natura ama nascondersi”, ma solo se si cerca di ridurla alla sua concretezza materiale. C’è uno spirito visibile della natura e uno invisibile, dell’intelligenza della vita. Non è con la violenza, bensì con la melodia, il ritmo e l’armonia che Orfeo penetra i segreti della Natura.
Soltanto prendendoti il tempo per gustare i panorami e osservando la natura circostante mi troverai, e per un istante i due mondi – quello visibile e quello invisibile – si toccheranno. Con me potresti intraprendere “un viaggio affrontando i massimi pericoli con la massima prudenza. Viene qui chiamata arte la realizzazione di un sapere in un’azione”.
Baghet
“PREMIO SPECIALE” Blogger Contest 2020 Altitudini
Baghet, 1965 circa
Una lunga barba bianca. Ai miei occhi lui era l’emanazione stessa del bosco, il custode e il detentore di tutti i suoi segreti.
I ricordi mutano in base a chi guarda, nelle memorie di mia madre lui ritornava spesso come una figura dipinta nel bosco, una miniatura operosa con la falce, circondato nella quiete del pascolo dalle mucche e dai cani.
Nella geografia delle borgate tutto cambia rispetto ai riferimenti della pianura; abitava qualche borgata oltre la mia, nella località chiamata Case Goro.
Nelle mie esplorazioni di allora, prima di arrivare alla sua dimora compivo un sentiero attraverso antiche case ormai abbandonate che magicamente diventavano i miei castelli e i luoghi dalle mille storie. All’improvviso la luce sovraesponeva tutto il regno del visibile e riaccendeva i focolari, rilluminava i vetri delle finestre e risvegliava oggetti da tanto tempo assopiti.
Dove iniziavano a farsi più radi gli arbusti selvatici, i rovi, le erbacce e il prato diveniva più dolce e armonico, lì iniziava il suo regno, quel lavoro quotidiano di falce e braccia portava la sua firma unica. La sua casa era come appoggiata nel centro del prato e la visione della stessa ai miei occhi era sempre alquanto bizzarra essendone una buona porzione per metà crollata. Si diceva che fosse stato un fulmine a farlo.
Case Goro, Baghet 1965 circa
Lui dimorava lì, in solitudine, per tutto l’inverno.
Aveva per sé soltanto una piccola cucina con la stufa al pian terreno, arredata come la cella di un monaco: un tavolo modesto, una poltrona logora e unica concessione al moderno la sua inseparabile radiolina FM.
I suoi alloggi erano anche al piano superiore e passando per delle scale esterne si poteva arrivare alla sua camera da letto. Il pavimento di questa stanza, forse per l’umidità delle travi interne, era rigonfio centralmente e lì vi erano un grosso letto e un armadio; il tutto mi ricordava una camera composta sulla testa di un fungo. A queste bizzarrie, aggiungo la più bella e la più curiosa: la finestra di questa stanza era sempre aperta, estate e inverno. Immagino ci fosse un motivo razionale ma mi piace pensare che volesse solo evaporare un po’ della sua anima tutte le notti nel bosco. Poco più in là tra gli alberi e l’erba troneggiava la visione surreale di un water in ceramica. Questa immagine Magrittiana era il suo semplice bagno open air.
Ci furono due eventi a sconvolgere la tranquilla monotonia della sua vita agreste. Il primo è stato la guerra; dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 il Baghet per mettersi in salvo dai repubblichini fascisti si nascose per giorni e giorni in un buco adiacente alla casa. Come un Giona nel ventre della balena rimase rintanato, tentando di scampare alla deportazione o all’arruolamento forzato tra le file fasciste, in quei giorni tragici e confusi.
Il secondo evento fu il suo unico giorno di lavoro sotto padrone. A Balangero, un paese delle Valli di Lanzo, vi era questa ditta che estraeva dalle viscere della terra le fibre di amianto, chiamata da tutti i locali “l’amiantifera di Balangero”.
Balangero, cava di estrazione amianto in disuso, 2019
Primo Levi ci aveva lavorato, subito dopo la sua laurea in chimica e la descriveva così:
«C’era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo; i tetti erano coperti da uno spesso strato di polverino, che nei giorni di pioggia si imbeveva come una spugna, e ad un tratto franava violentemente a terra.» |
(Primo Levi, Il sistema periodico) |
Sulla stessa cava di Balangero, qualche tempo dopo, nel 1954, fu Italo Calvino a scrivere per «l’Unità» un racconto-reportage che uscì il 28 febbraio sull’edizione di Torino del giornale. In seguito a una lunga agitazione sindacale, originata dall’abolizione del premio di produzione, lo scrittore era stato inviato per raccontarne le vicende e il risultato fu La fabbrica nella montagna:
L’auto girò l’ultima curva tra i castagni e davanti ebbe la montagna dell’amianto con le cime e le pendici scavate a imbuto, e la fabbrica compenetrata in essa. Quelle erano le cave, quelle gradinate grigie lucide ad anfiteatro tagliate nella montagna rossiccia di cespugli invernali; la montagna scendeva pezzo a pezzo nei frantoi della fabbrica, e veniva risputata in enormi cumuli di scorie, a formare un nuovo, ancora informe sistema montuoso grigio opaco. Tutto era fermo in quel grigio: da trentacinque giorni sui gradini della cava non salivano gli “sgaggiatori” armati di pala, picco e palanchino, né le perforatrici ronzavano contro la parete, né gli uomini delle mine gridavano accendendo la miccia: «Oooh la mina! Oooh brucia!», né quelli dei carrelli facevano il carico sul piano di frantumazione, e poi via per i ripidi binari scavati nella montagna, né quelli delle “bocchette” manovravano le leve per scaricare il materiale nei condotti della fabbrica, né nessun altro in nessun reparto lavorava a trasformare quella pietra in duttile fibra d’amianto: c’era lo sciopero, dal 18 gennaio, e quell’automobile che adesso usciva dal castagneto portava su i dirigenti della “Amiantifera” a discutere con la Commissione Interna
Quello stesso grigio ritorna, nel racconto di Calvino, per descrivere il micidiale silenzio del bosco che copre la montagna: «Ma non ce n’è di lepri nel bosco, non crescono funghi nella terra rossa dai ricci di castagno, non cresce frumento nei duri campi dei paesi intorno, c’è solo il grigio polverone d’asbesto della cava che dove arriva brucia, foglie e polmoni, c’è la cava, l’unica così in Europa, loro vita e loro morte».
Già, perché, lontana da azionisti e consigli di amministrazione, la fabbrica nella montagna aveva mietuto quindici morti d’infortunio in trentacinque anni. I numeri relativi ai morti d’amianto, oggi, sono anche peggiori: fino al dicembre del 2014 il numero di ex operai dell’Amiantifera deceduti era di 1201: in 214 casi, uno su cinque dunque, è stato possibile stabilire che il decesso sia stato causato dalla prolungata esposizione all’amianto.
Di fatto, gli effetti cancerogeni dell’asbesto furono resi pubblici solo tra gli anni Cinquanta e Sessanta − nel pieno di una vera e propria età dell’amianto −, anche se ciò non ha impedito alle aziende di utilizzarlo, anche successivamente, data la sua economicità e la sua efficienza nel prevenire i danni derivanti dal fuoco. Alla fine degli anni Sessanta si trovavano già in commercio oltre tremila prodotti contenenti amianto: nell’edilizia, sulle navi, nei serbatoi per l’acqua, nei freni per auto, nei guanti di protezione, sui vagoni ferroviari, nelle guarnizioni di ricambio per motori, nei tubi per acquedotti e fognature, nelle canne fumarie, nei tessuti resistenti al fuoco, persino nelle corde e sugli schermi. Tale utilizzo si è protratto all’incirca sino alla fine degli anni Ottanta.
Tornando al Baghet era andato soltanto per un giorno a lavorare nella cava dell’amianto e aveva deciso che fosse l’unico. Non gli importava dello stipendio fisso garantito, forse aveva capito che c’era del veleno nell’aria o forse per lui il veleno era solo il lavoro sotto padrone e lo star lontano dalla sua vita fatta di cose semplici: la cura del bosco, portare gli animali al pascolo e la contemplazione del suo piccolo regno.
Il suo regno per un salario: no, proprio non faceva per lui.
In quegli anni di boom economico, di Fiat 600 presa a rate e di completa distruzione di quella società arcaica preindustriale, la sua fu sicuramente una scelta contro corrente, quasi unica.
Molti dei ricordi e delle immagini della sua casa che qui ho scritto in realtà sono falsati dai miei ritorni d’adulta. In questi anni ho potuto osservare in solitudine la sua dimora e quello che ne rimaneva, e in ogni mio ritorno lui riviveva sempre di più, in un dialogo infinito tra la mia memoria, gli alberi, i fili d’erba e le pietre della casa. Tutto parlava e parla di lui lì, ma anche di me come in una stanza degli specchi.
Il ricordo è prezioso e magico sia per chi fa esercizio di ricordo che per l’oggetto della memoria.
Il ricordo cos’è se non un filo magico, una linea di mercurio vivo, tante perle di mercurio dopo la rottura di un termometro in una mattina degli anni 80 e mentre tentavi con tutta te stessa di raccogliere quel pernicioso argento liquido, inesorabilmente, le particelle tendevano a unirsi costrette da un’epifania prestabilita.
Lo immagino così: solo in inverno, con il fuoco della stufa che scoppietta mentre guarda la neve calare fiocco dopo fiocco nel bosco davanti a lui, nel silenzio e negli sbuffi di freddo che si insinuano tra le crepe delle mura dove scorrevano le sue ore sempre uguali nell’unico luogo che per lui avesse un senso.
Nove colori
“Questa storia partecipa al Blogger Contest.2018”
Ogni volta che mi metto in cammino, corpo e mente si mettono in moto in un unico respiro che suona come un antica musica rituale.
Spengo la macchina, spengo il telefono e ascolto solo più il mio corpo muoversi nello spazio. Si crea una musica che non è un semplice accompagnamento della poesia estemporanea ma diventa commento assoluto.
Mi piace camminare d’inverno. La Valle Maira mi attira soprattutto quando diventa silenziosa.
Una sera di Novembre, decido insieme a Umberto, di raggiungere il Lago dei Nove Colori in alta Valle Maira con tappa al Bivacco Barenghi per passare la notte. La bellezza solitaria di questa valle si presenta dinanzi tutta insieme, a volo d’uccello.
Ci sentiamo un po’ come gli avventurieri americani che attraversavano il grande West a fine 800. Non dobbiamo conquistare un territorio, come nel vecchio mito della frontiera, ma abbiamo tutto un mondo da scoprire per una libertà “altra”. La notte aumenta questo senso di libertà.
Spesso cammino in solitaria, alle volte con amici che come me apprezzano la compagnia dei solitari. Si parla poco, si resta vicini.
Camminiamo, mentre la terra si riposa, tra sentieri evidenti e pietraie che confondono.
Ad un tratto, per orientarci in questo blu notte, cerchiamo di capire se siamo vicini al lago Niera, gettando un sasso in quella che sembra la sagoma del lago.
Ci risponde un acuto rombo. È curioso sentire il suono dell’acqua senza poterla vedere, la notte è il momento dei suoni e degli odori.
Il percorso è lungo, a tratti nero, immobile e silente.
C’è una piacevole sensazione che spesso avverto in montagna. Mi ricorda l’infanzia, quando giocavo nel bosco vicino a casa, quella coscienziosa infantile dissolutezza che mi permetteva di scoprire il mondo nel tempo che un gioco dura. Mi sento come allora, piccola, fragile e potente. Forse è la notte che ti rimpicciolisce eppure ti fa sentire grande, come una regina che si guardasse attorno, come un’aquila libera e librata in volo.
All’improvviso mi accorgo di due occhi che mi osservano da una roccia. Poi mi seguono. È una volpe.
La volpe si avvicina, ma nel tentativo di seguirla, la perdo di vista.
Dopo poco, mi accorgo insieme a Umberto di non aver smarrito solo la volpe, siamo fuori sentiero e molto probabilmente siamo sulla via che porta al colle dell’Infernetto. Non è cosi distante dal bivacco Barenghi e riproviamo a cercare il percorso.
Intorno a noi, queste sagome dai colori lividi, si divertono a confonderci. È tardi e fa freddo, sappiamo che c’è solo una soluzione: “passare la notte en plein air, ritagliandoci uno spazio nella neve”.
<<Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva>>, diceva il poeta Hölderlin. È una costante che ritorna sempre. Ci addormentiamo nei nostri sacchi guardando il grande cielo sopra di noi. Posarsi per toccare le stelle. Le stelle piene di colore, blu, giallo, bianco, rosso. Lentamente ritorna quella musica che aveva dato inizio al mio cammino e intona una ninna nanna insieme al vento.
Al mattino le stelle si spengono, e il cielo riluce di una luce intensa. La notte e il giorno sembrano davvero due mondi lontani. Un ventaglio di colori caldi, rosso fuoco, arancione, marrone. In breve tempo raggiungiamo il bivacco Barenghi, ora è tutto così differente, ci sembra di essere altrove.
Sconfiniamo in Francia, attraverso il colle Gippiera, per arrivare al Lago dei Nove Colori. Potrebbe anche chiamarsi dei nove colori per tutte le sfumature di blu presenti nel lago ma, a dire il vero, sarebbe un errore di traduzione dal francese. Sarebbero Couloirs e non Couleurs, ovvero canaloni, che, in geologia, indicano un ampio solco di origine erosiva sul fianco di una montagna o tra due pareti rocciose, e non “colori”. Ma ai più piace pensare che sia il Lago dei Nove Colori ed effettivamente risulta molto più poetico. Il lago è lo specchio d’acqua più esteso della zona. Ha una forma simile a un cuore, con una lunghezza di 500 metri circa e una larghezza massima di oltre 400.
Oggi è parzialmente ghiacciato ma decido di tuffarmi ugualmente.
Poco prima di tuffarmi mi era sembrato di sentire quel silenzio che ti introduce al mistero dell’acqua, come succede nel mare. C’è l’attimo in cui pensi a cosa stai per fare e poi quello successivo, dove non pensi più ma agisci. Mi abbandono al lago. L’orchestra dà inizio al primo movimento: “c’è il lilla e il viola ma con mia meraviglia anche un verde chiarissimo che mi ricorda il quarzo verde”. E poi arriva la parte finale di coda, che mi spinge in alto e ricompone le mie forme per la terra e per un nuovo cammino.
I mondi sono tutto quello che possiamo carpire, l’essere di qua e di là, per poi scomparire come una volpe.